La nascita delle arti marziali
La nascita delle arti da combattimento è avvolta dal mistero e intrecciata alla leggenda. Tradizionalmente, le arti marziali tracciano la loro origine alla figura del monaco buddista indiano Damura Daishi, conosciuto con il nome di Bodhidharma (Tamo in cinese), considerato il fondatore del Buddhismo Zen. La realtà storica del tempio Shaolin ha sempre generato confusione e dibattiti, poiché la maggior parte dei templi sono stati distrutti e successivamente ricostruiti. Si stima che l’ordine Shaolin abbia avuto inizio attorno al 540 a.C., proprio con l’arrivo di Bodhidharma, al quale si attribuisce l’ideazione di sequenze fisiche ispirate ai movimenti naturali degli animali. Secondo la leggenda, Bodhidharma lasciò l’India per recarsi in Cina con l’intento di incontrare l’Imperatore e diffondere le dottrine Zen. Parallelamente, l’Imperatore era alla ricerca di monaci (Tao Zen) per tradurre i testi buddisti dal sanscrito al cinese, desiderando renderli accessibili alla popolazione per promuovere il cammino verso il Nirvana. Tuttavia, Bodhidharma disapprovava questa visione, sostenendo che l’illuminazione non potesse essere raggiunta tramite azioni compiute da altri, anche se in suo nome. Da questo disaccordo nacque una rottura nei rapporti tra Bodhidharma e l’Imperatore.
Nel suo viaggio, Bodhidharma giunse nei pressi di un tempio costruito su una foresta distrutta da un incendio. I giardinieri imperiali avevano piantato nuovi alberi e il tempio prese il nome di “Giovane Foresta” (Shaolin in mandarino, Sil Lum in cantonese). Al suo arrivo, i monaci del tempio, vedendo in lui un membro esterno, gli impedirono l’accesso e lo confinarono in una caverna. Qui Bodhidharma meditò a lungo, fino a conquistare l’ammirazione dei monaci, i quali iniziarono ad accogliere i suoi insegnamenti. Secondo la leggenda, durante la meditazione egli riuscì a perforare la parete della caverna con lo sguardo e, quando si addormentò, si tagliò le palpebre per impedire che accadesse di nuovo; da queste palpebre nacque in Cina un albero sacro con foglie a forma di occhio.
Nel riunire i monaci, Bodhidharma si accorse della loro scarsa forma fisica, dovuta alla vita sedentaria trascorsa nella trascrizione dei manoscritti. Ritenendo che la debolezza corporea ostacolasse anche la pratica della meditazione, decise di istruirli in una serie di esercizi fisici derivati dallo yoga indiano, ispirati ai movimenti di diciotto animali dell’iconografia indo-cinese. Questi esercizi, che divennero le basi del Kung-Fu Shaolin, furono poi elaborati in un vero e proprio sistema di arti marziali noto come Shorinji Kempo. La disciplina nei templi era estremamente rigorosa e i monaci dovevano attingere a una notevole forza mentale e resistenza psicofisica per sostenere la vita monastica. Gli esercizi, inizialmente destinati alla salute e alla meditazione, furono col tempo adottati anche come metodo di autodifesa e divennero parte integrante della formazione Shaolin.
Con il passare degli anni, questa metodologia evolse in quello che oggi è noto come “metodo di combattimento Shaolin”. L’arte si diffuse in tutta la Cina, sviluppandosi in molteplici scuole sotto il nome collettivo di “Ch’uan-Fa”, conosciuto in Occidente come Kung Fu. Sebbene sia difficile stabilire con precisione quando questi esercizi divennero vere e proprie arti marziali, è probabile che la componente marziale sia sorta come risposta alla necessità di autodifesa. Il tempio Shaolin, situato in una zona isolata, era esposto ad attacchi da parte di banditi e animali selvatici, circostanze che resero utile la padronanza del combattimento.
Nel tempo, la setta Shaolin divenne sempre più nota anche grazie alla pratica marziale, anche se ciò non significa che Bodhidharma “inventò” le arti marziali. Esse esistevano in Cina da secoli. Tuttavia, fu all’interno del tempio che tali discipline vennero sviluppate, codificate e sistematizzate in nuovi stili distintivi, oggi noti come stili Shaolin. Uno dei principali interrogativi posti dagli studiosi occidentali è la presunta contraddizione tra i principi buddisti di non violenza e la leggendaria abilità dei monaci Shaolin nel combattimento.
Fonti principali:
- Kenji Tokitsu, Storia del Karate – La via della mano vuota, Luni Editore, 2001.
- Gichin Funakoshi, Karate-dō: Il mio modo di vivere, Edizioni Mediterranee.