Il makiwara è inutile
Il makiwara (巻き藁) è uno degli strumenti più antichi e simbolici del Karate tradizionale. Utilizzato per secoli dai praticanti di Okinawa, è costituito da un palo di legno piantato nel terreno e rivestito da un fascio di paglia intrecciata. Colpirlo con pugni, gomiti o mani aperte serve – nella teoria – a “temperare” le cosiddette armi naturali del corpo, rafforzando la struttura ossea e rendendo più efficaci i colpi.
Già nel 1908, il Maestro Ankō Itosu ne decantava i benefici:
«Le mani e i piedi sono importanti e vanno rinforzati con l’uso del makiwara. Permette di abbassare le spalle, aprire i polmoni, imparare la presa a terra e trasferire l’energia al basso ventre. Pratica con ogni braccio cento o duecento volte.»
Anche Shigeru Egami, nei suoi anni giovanili, segue fedelmente questo insegnamento. Considera il makiwara un compagno inseparabile. Si allena con dedizione per venticinque anni, senza mai saltare un giorno, persino portandolo con sé in viaggio. Ma anche qui, come accaduto con lo tsuki, la maturità lo porta a una revisione radicale.
«Mi sono esercitato al makiwara per 25 anni. Non ho mai perso un giorno. Ma, man mano che progredivo, il mio modo di pensare è cambiato. L’ho trovato sempre meno utile, fino a considerarlo oggi non solo inutile, ma persino nocivo per il Karate.»
L’illuminazione arriva con un esperimento semplice, ma rivelatore. Da giovane, osservando un castagno in giardino, si chiede se con un solo pugno possa far cadere tutte le castagne dall’albero. Prepara il tronco, colpisce con tutta la forza… ma solo poche castagne cadono. Il risultato è deludente, e il suo pugno si gonfia dolorosamente. Da quell’esperienza nasce una domanda: a cosa serve davvero indurire il pugno, se poi non si riesce a generare un colpo realmente efficace?
«Dopo quella prova ottenni un pugno duro, capace di rompere assi e tegole. Ma non ho mai potuto avere fiducia nell’efficacia reale di quel colpo.»
Col tempo, Egami incontra altri karateka con le mani segnate dal makiwara. Articolazioni callose, pelle spessa e scura come quella dei talloni. Mani impressionanti da vedere. Ma al momento della prova – un colpo diretto al ventre – i risultati lo sorprendono:
«I loro colpi non erano efficaci.»
La consapevolezza si fa strada con forza. L’indurimento esterno del corpo non basta. Il makiwara, a suo avviso, alimenta un’illusione: quella che un pugno duro equivalga a un colpo efficace. Ma se il corpo è irrigidito, se il movimento è bloccato, l’energia non può fluire.
«Ho finito per trasformare completamente la forma del pugno. E se si assume questa forma efficace, non ci si può esercitare al makiwara. Così ho abbandonato completamente quell’esercizio: era circa il 1958.»
Ma la riflessione di Egami non si ferma all’efficacia tecnica. Spinge oltre, fino alle conseguenze per la salute. Lo studio delle discipline orientali lo porta a considerare il makiwara addirittura pericoloso per il benessere del corpo.
«L’esercizio al makiwara non è solo inefficace, ma è nocivo per la salute. È evidente, se si studia anche poco l’agopuntura o lo shiatsu.»
La sua conclusione è netta: per ottenere un tsuki davvero efficace, non serve colpire più forte, né rendere il corpo più duro. Occorre piuttosto liberare il movimento, riscoprire una naturalezza dimenticata, lasciando che l’energia si concentri e fluisca nel momento giusto, nel punto giusto.
Con la rinuncia al makiwara, Egami segna un altro passaggio fondamentale del suo cammino: l’abbandono degli strumenti e delle credenze tradizionali non per rifiutarli, ma per andare oltre, cercando una verità più profonda, più coerente con lo spirito originario del Karate.
Fonti principali:
- Kenji Tokitsu, Storia del Karate – La via della mano vuota, Luni Editore, 2001.
